Chi ringraziano per l’elezione

Alla vigilia della rivoluzione del 1789 la situazione finanziaria della Francia è disastrosa. La monarchia spende a piene mani per la corte, l’esercito e la burocrazia e si indebita sempre più con i banchieri; inoltre il deficit si è aggravato a causa del sostegno militare del paese alla rivoluzione americana. Sarebbe necessaria una riforma del sistema tributario per costringere i maggiori proprietari fondiari, l’alto clero e la nobiltà a pagare le tasse dalle quali sono completamente esentati in virtù di antichi privilegi. Ancora più necessaria sarebbe la riforma del sistema di riscossione delle tasse, estremamente deficitario; l’esazione delle gabelle è infatti appaltata ad un’istituzione privata controllata da finanzieri francesi e svizzeri, raramente onesti e le provincie e i territori sono molto diversificati economicamente fra loro a causa di privilegi e diritti concessi dai vari sovrani. Sostituendo, come in un gioco da tavolo, Francia con Italia, monarchia con partiti, corte con parlamento, gabellieri con Equitalia e territori con regioni a statuto speciale, possiamo dare inizio a Le divertissement” dell’ipotizzare la data con cui sostituire quella del 1789 e confermare così il pensiero di Blaise Pascal: “L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie”.

Eredità di quella rivoluzione, che sembra non aver cambiato nulla, è la divisione in sinistra, destra e centro dello schieramento politico nelle aule parlamentari d’ogni dove.  Divisione in rigidi schieramenti che non permettono di schierarsi fra favorevoli o contrari ad un provvedimento. Si approva o meno un provvedimento, una proposta tenendo conto solo della “zona” di appartenenza del proponente. Si spera sempre, oggi come allora, nella buona volontà dei nuovi arrivati nelle aule parlamentari ma, come sempre, anche negli ultimi arrivati vince il senso di riconoscenza verso chi ha permesso loro di entrare in quelle aule: il partito, lo schieramento nel quale gli è stato concesso di candidarsi. Non si finisce mai di discutere di legge elettorale, continuamente si promette di dare agli elettori la possibilità di scegliere chi votare ma si continuano a proporre meccanismi elettivi che prevedono essenzialmente ed esclusivamente la possibilità di votare persone comprese in un elenco determinato dai partiti. Non esiste perciò assolutamente la possibilità di votare chi vogliamo, possiamo scegliere solo fra i nomi elencati nelle liste elettorali compilate dalle segreterie dei partiti o da associazioni locali ed organizzazioni, più o meno politiche, che durano solo il tempo necessario per presentarsi alle elezioni.
Eredità negata invece della rivoluzione francese è il suffragio universale (allora solo maschile, dati i tempi) che prevedeva una procedura elettorale a diversi gradi, nella quale i deputati nazionali non erano eletti immediatamente. Gli elettori si riunivano per aggregazioni locali (parrocchie) e in tale sede redigevano un proprio “cahier de dolèances” inoltre, sulla base del numero di famiglie, designavano uno o più delegati alle assemblee territoriali. Qui durante un’assemblea preliminare venivano sintetizzati in uno solo i diversi “quaderni di doglianza” e si sceglievano quelli che oggi potremmo chiamare i grandi elettori che in una fase successiva nominavano i deputati agli stati generali. Altro che il porcellum voluto dai nostri porcari.

C'è chi parla di panettone e chi invece…

La celebre frase “S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche” (se non hanno pane, che mangino brioche!)

– erroneamente attribuita alla decapitata Maria Antonietta d’Austria – sembra fare il paio con quella di Enrico Letta “mangeremo il panettone, anche l’anno prossimo”. Detta con ingenua ironia, in una situazione di grave crisi come l’attuale che non ha niente di meno negativo di quella che determinò l’esecuzione pubblica della regina consorte di Luigi XVI in Francia, lascia però un livido sulla faccia dei tanti italiani che in questi giorni manifestano nelle piazze impugnando attrezzi agricoli normalmente impiegati in lavori più utili. Parlare di panettone quando c’è chi ha problemi per approntare un pasto per i figli denota leggerezza d’animo, mancanza di problemi, sicurezza per un meraviglioso futuro determinato da un roseo presente pieno di cenoni e pranzi pagati con i sacrifici di chi non arriva alla seconda settimana di ogni mese e che all’anno prossimo sperano solo di arrivarci. Oggi come ieri chi governa, molto spesso, perde i contatti con la realtà di ogni giorno e conferma il popolare detto: il sazio non crede a chi digiuna. Con il loro comportamento hanno talmente perso credibilità che ogni loro gesto di solidarietà viene visto con sospetto dai “governati”: perché ora? che ci guadagna? queste sono le domande che la gente rivolge a chi vuole rispondere. Grazie al Cielo non sono tutti uguali. Un noto personaggio politico locale che, come risulta ai meno distratti, da anni contribuisce ad alleviare il disagio di molte famiglie modugnesi in difficoltà, anche questo Natale, aiutato dalla consorte, sta organizzando alcune iniziative di solidarietà che prevedono “fatti” concreti e non vuote chiacchiere; se qualcuno solo oggi se ne accorge (e sospetta chissà che) è solo perché il numero delle famiglie in difficoltà è purtroppo aumentato e non è più possibile agire operando “in silenzio e nell’ombra” e tale comportamento è già una risposta ai soliti malpensanti. Copiamolo.

Italia che vai, paese che trovi

Molti pensano all’Italia come il ‘BelPaese’, della natura, della cucina, delle tradizioni, della cultura. Tutte caratteristiche molto simili e molto varie allo stesso tempo per chi viene da fuori, ma se si avvicina come con una lente d’ingrandimento, si accorge della varietà di caratteristiche. E’ inutile negare che l’Italia soffre tutt’oggi del male che l’affligge da secoli e cioè della frantumazione che ha subito in passato a causa della divisione geografica (ricordiamo il periodo degli ‘Staterelli’) e nell’epoca contemporanea per il federalismo fiscale, una sorta di ritorno al passato, di individualismo economico-politico il cui fulcro verte comunque a Roma.
In tutto questo però ognuno fa la sua parte, nonostante i problemi di budget attanagliano ogni Regione, dove più e dove meno. E devi starci in un posto per poter capire, vedere, confrontare, per poter uscire dai luoghi comuni e dalle etichette. Proverbiale la volontà dell’Emilia Romagna che nonostante il terribile terremoto che l’ha colpita, risorge orgogliosamente con una forza d’animo come poche, in fatto di rimboccarsi le maniche fin da subito e riaccendere i motori dell’economia, senza stare tanto ad aspettare la manna dello Stato. La Sicilia è l’ esempio di una terra che nonostante i suoi antichi problemi socio-politici, non disdegna di mettersi alla prova, facendo leva su una natura, un clima, su una cucina squisiti. Innovative le strutture che oltre che fare da ‘bed and food’, fanno da intrattenimento per i turisti, offrendo loro un caffè sulle terrazze di antichi palazzi, il cui personale conversa con loro piacevolmente, mettendoli a un po’ a conoscenza della storia del posto e della gente. Il turista alla fine ne rimane contento, rallegrato e con piacere lascia una piccola mancia (specialmente gli stranieri).  Un nuovo modo di fare impresa che soprattutto i giovani hanno ideato, per uscire dalla crisi e valorizzare il proprio territorio. Alla base di tutto però c’è la cordialità e l’accoglienza, non solo determinata da un sicuro guadagno: se si pensa che se chiedi un’informazione stradale qualcuno è disposto addirittura ad accompagnarti per indicarti la strada, anche se non ti conosce o, un altro ti regala degli agrumi, quando avresti voluto comprarli, come ha fatto il signor Giuseppe Triolo che possiede l’azienda agricola ‘Arance di Poggiodiana Ribera’. Quando torni a casa e rifletti, pensi al fatto che tante piccole iniziative potrebbero essere attuate, se solo la lenta burocrazia lo volesse, ma anche se solo la gente lo volesse. L’osservazione è il cannocchiale che ci permette di mettere a fuoco quelli che sono i nostri pregi e difetti, i nostri punti di forza e quelli da rafforzare. Un fatto è certo però: ciò che fa da biglietto da visita del nostro territorio siamo noi stessi. Il nostro fare gentile, anche se le cose non vanno, conta, anche perché non è sempre colpa del vicino, del cliente, del salumiere, del collega, ma spesso di una predisposizione positiva o meno che si assume nei confronti della vita. Non è sempre tutto bianco o tutto nero, ma ci sono tante sfumature che possono divenire colorate, se solo noi a volte lo volessimo

Modugno – città fantasma

Il 7 gennaio 2010 a Modugno viene conferito il titolo di CITTÀ. Città = un paese che si differenzia per estensione e densità di popolazione. Lo dice anche Wikipedia! Eppure “Ci sentiamo così soli”.
Chi? Chi si sente così solo?
L’anima della città, la voce comune dei giovani che crescono in un non-presente e rappresentano il futuro.
Ci svegliamo con il riecheggiare delle voci delle maestre che urlano tra le mura scolastiche; riconosciamo la voce di nostra madre in lontananza, che contratta con il fruttivendolo, ancor prima di alzarci dal letto.
Rombi di motori, clacson di macchine in doppia fila, citofoni che suonano all’unisono (tipica strategia dei postini per entrare nei nostri portoni).
Un continuo scorrere di suoni che si scontrano e creano rumore, quello stesso rumore che ci porta alla realtà, alla quotidianità, alla vita.
Al calar del sole, quando comincia a farsi sera, i lampioni si fanno strada nel buio e noi, ci domandiamo: costa stanno illuminando?
Fanno luce sulla strada che porta alla stazione, l’unico luogo in cui possiamo avvicinarci davvero alla città, quando volgiamo lo sguardo verso il cartellone che indica la fermata del treno: MODUGNO CITTÀ.
La fascia compresa tra i 15 e i 18 anni viene stimolata dai paesi vicini dove, paradossalmente, la possibilità di divertirsi è decisamente più alta. La fascia coperta dai ventenni invece, costituita da studenti e lavoratori, ha sviluppato una sorta di rassegnazione e anche una stretta amicizia con le palle di fieno che indisturbate rotolando di qua e di là. Non ci sono dubbi nemmeno per la fascia dei genitori, soprattutto delle mamme che prediligono la sera come momento perfetto per “stirare le camicie”. Per non parlare dei nonni costretti a ritirarsi con le loro sedie pieghevoli, non avendo nulla da vedere su cui spettegolare.
Nulla togliere agli eventi a sfondo socio-culturale, di cui non possiamo lamentarci: mostre, presentazioni di nuovi autori, cortei e associazioni sportive che sono diventate l’unico mezzo di svago di noi ragazzi.
E dopo cosa resta? Due scalini e una birra.

A Modugno destra e sinistra hanno un nemico … in comune

Pino Oro

l’antipolitica demagogica.

Il filosofo greco Aristotele classificando l’uomo come “zoon politicon” animale politico – ne sosteneva la natura essenzialmente politica – “l’uomo è destinato a vivere con gli altri esseri umani e se così non fosse si troverebbe a essere una belva o un dio che non ha bisogno degli altri”- “La politica è ineliminabile dalla vita dell’uomo e colui che proclama la sua contrarietà alla politica, fa necessariamente politica.”
Ci sono varie forme di antipolitica, alcune si intrecciano con altre nella storia umana: c’è l’abbandono della politica per egoismo – lasciare il compito di governare agli altri preoccupandosi solo delle proprie faccende “tanto non cambia nulla, tanto vale pensare a se stessi”; e c’è l’antipolitica epicurea per la quale la vita politica, il rapporto dell’uno con tutti è abbandonato e l’essere umano sostituisce la politica con un’altra forma di condivisione materiale e spirituale “vivi nascosto – dice Epicuro – e sostituisci alla politica i rapporti interindividuali, e tra questi soprattutto l’amicizia; di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l’acquisto dell’amicizia”
Poi ancora l’antipolitica come la sofistica: “se è giusto ciò che stabilisce la legge perché le leggi non sono uguali dappertutto? Perché ciò che è giusto in un paese non lo è per tutti gli altri? Se così non è, questo è dovuto al fatto che le leggi sono frutto di convenzioni umane” … e pertanto i sofisti ponendo il dilemma “chi stabilisce cosa è giusto?” traggono la conclusione che “per prudenza e per la propria utilità bisogna rispettare la legge ma si può trasgredirla se conviene e spezzarla quando si ha la forza per farlo” – perché l’uomo ha bisogno di un criterio di giustizia, di un principio per il suo comportamento politico e morale stabilito in una convenzione che lo veda parte attiva della convenzione stessa – “faccio solo ciò che ritengo giusto per me”.  
C’è anche l’antipolitica dei delusi, di quelli che nel corso del tempo sono stati disorientati dalla politica e che la ritengono ormai una pratica fallimentare e quindi decidono di allontanarsene definitivamente chiudendosi nella loro  sfera privata; o ancora l’antipolitica passiva, quella degli esclusi, di coloro cioè che non hanno rinunciato all’esercizio della politica ma che non sono mai stati coinvolti – sempre “oggetto passivo” mai “soggetto attivo” della politica – che vivono ai margini della società in una vita spesa solo nella ricerca della sopravvivenza. È l’antipolitica dell’incolto che ha capito il trucco sofistico della falsa politica parolaia che serve non a spiegare, a chiarire ma al contrario a prevalere sull’interlocutore, a coprire i propri individuali interessi facendoli apparire come interessi di tutti, oppure a non riconoscere le proprie responsabilità ma a mascherarle con parole prive di contenuto. L’incolto rifiutando a priori la politica che usa un linguaggio che non capisce perché non gli appartiene e che disprezza come puro esercizio verbale ne rimane escluso.
C’è l’antipolitica passiva per antonomasia, l’antipolitica delle masse le cui agitazioni erano assai temute dalle classi dominanti. Quando le masse si mobilitano lo fanno il più delle volte contro le istituzioni, i nemici che le opprimono e le sfruttano. Le masse delle quali persino i marxisti diffidavano o meglio ne riconoscevano la validità solo come massa d’urto rivoluzionaria sotto la guida del proletariato.
È antipolitica attiva quella di chi contesta tutto ciò che riguarda le forme della politica condivisa, le strutture della democrazia politica accusandole di ideologismo, di astrattezza, di inutili procedure, fonti di lungaggini, a cui egli vuole contrapporre invece un fare, un’azione spiccia, pratica e fruttuosa. Il lascia fare a me. È la politica di chi si proclama antipolitico e vuole convincere gli altri della inutilità dell’esercizio politico, del ragionamento politico, di lasciar fare a lui che ha lo spirito e le capacità adatte, che sa gestire la cosa pubblica.
E c’è anche l’antipolitica acritica, promossa da chi contesta tutto ciò che viene dalla politica ma non propone nulla per il cambiamento, che in ogni atto politico evidenzia solo gli aspetti negativi e considera ininfluenti quelli positivi, che spesso neppure vede. Il mondo politico così com’è non gli sta bene ma in fondo non sa neppure lui quello che vuole; la classica posizione dell'”uomo della strada“, dell’uomo qualunque “stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole, che ragiona in base al buon senso comune che vede soluzioni facili a problemi che la politica complica inutilmente”, che vorrebbe affidare il governo del paese ad un “buon ragioniere che entri in carica il primo gennaio e se ne vada al 31 dicembre e che non sia rieleggibile per nessuna ragione” (…) “ad un onesto amministratore che tenga un ordinato libro dei conti”. L’unico punto programmatico del “qualunquismo” era la durata in carica dell'”amministratore” e la sua non rieleggibilità, sospettando che altrimenti il prolungarsi dell’incarico avrebbe potuto trasformarlo in politico di mestiere. Il movimento antipolitico del “Fronte dell’Uomo Qualunque” ebbe vita breve. La stessa necessità di schierarsi politicamente per realizzare il suo programma contraddiceva la sua confusa impostazione ideologica e ne determinò la sua stessa fine.
In ultimo ma non meno significativa delle altre c’è l’antipolitica costruttiva che contesta il modo di fare politica del presente e auspica un nuovo modo di esercitare la politica. Quindi, non un rifiuto per il rifiuto, ma un opporsi per costruire una politica più vera ed alta. Un’antipolitica che rimane politica, che mira all’instaurarsi di un nuovo tipo di cultura politico-sociale, quella da cui si origina la rivoluzione intesa come radicale cambiamento nella forma di governo di un paese, che comporta spesso trasformazioni profonde di tutta la struttura sociale, economica e politica di un sistema perché come disse il britannico Rainborough nel 1647 – quando l’esercito inglese reclamò il diritto di decidere l’assetto definitivo che avrebbe dovuto avere il paese – “tutte le libertà popolari hanno avuto origine da un’usurpazione dei privilegi delle classi dirigenti” e che solo dalla rivoluzione può nascere una nuova politica finalmente intesa come “la sfera delle decisioni collettive sovrane” (G.Sartori).
Antipolitica quindi e demagogia, si propinano agli elettori promesse impossibili da mantenere e li si istiga contro gli avversari politici accusandoli di nefandezze e malcostume. Demagogia – demos agein – trascinare il popolo,  il demagogo fa leva sui sentimenti irrazionali e sui bisogni sociali latenti delle masse, alimentando la paura o l’odio nei confronti dell’avversario politico etichettandolo come “nemico pubblico”.
Antipolitica e demagogia, come combatterli? A Modugno li subiamo; siamo i primi in Italia ad avere come sindaco un anti grillino
eletto con i voti dei simpatizzanti di Beppe Grillo; un difensore ad oltranza di quella stessa costituzione che i 5Stelle vogliono cambiare, elettori delusi dai politici che votano un antipolitico.  Come venirne fuori? La soluzione era a portata di mano a gennaio, alle idi di marzo era già morta, chi ha vestito i panni di Bruto? Chi ne ha armato la mano? A Modugno non hanno ammazzato Cesare, certo, ma affossando l’elettorato moderato hanno fatto vincere l’antipolitica demagogica.