Ricordo di aver letto da qualche parte che “La modestia deriva o dal non conoscere il proprio valore o dal fingere di ignorarlo”.
Il personaggio di questa intervista, stranamente, potrebbe rientrare in entrambe le ipotesi. Mi viene persino da pensare che lui, del proprio valore artistico, ne fosse intimorito a tal punto da non volerlo confessare neppure a se stesso. Parlo di Yari Carrisi Power, un personaggio del quale, suo malgrado, la storia non potrà farne a meno. L’idea di intervistarlo mi è venuta all’istante nel leggere un suo commento ad un articolo (leggi) che lo vede simpaticamente protagonista insieme al suo famoso padre, AlBano.
Nel messaggio su FB gli prometto, senza esserne troppo convinto, che avrei evitato di fargli rispondere alle solite domande abusate sui suoi famosi genitori, improntando invece, l’intervista sul Yari artista, silenzioso e discreto, refrattario al pettegolezzo ed al gossip. L’intervista si è svolta nel cuore della Roma trasteverina, dapprima al Bar all’angolo e poi, per eccesso di frastuono, sul terrazzino panoramico all’ultimo piano di un palazzetto d’epoca, attuale sede del Centro Buddihista Kadampa Mahasiddha, per gentile concessione della sua altrettanto famosa madre, Romina Power. Durante il colloquio, molto amichevole ed informale, è emerso man mano un personaggio di grande spessore, un uomo, un musicista raffinato di grande sensibilità e d’immensa cultura, acquisita direttamente alle fonti nel suo continuo peregrinare per lungo e per largo attraverso i cinque continenti, alla costante ricerca di conoscenze filosofiche ed antropologiche sulla musica per risalirne, in una sorta di indagine metafisica, al fondamento ultimo ed al suo principio primo universale.
Allora Yari, a quale musica ti rifai e da quale genere ti senti maggiormente influenzato?
Mi rifaccio più che altro a quello che mi va. Musicalmente non seguo nessuna scia, suono quello che mi da emozioni, altrimenti non riuscirei. Non me la sento di affermare che il Rock sia alla base della mia musica. Posso invece affermare che la mia formazione musicale ha attinto a due diverse culture, quella europea e quella africana. Personalmente considero l’Italia ancora parte dell’Africa cui era unita prima della deriva dei continenti. Sento nel vento, nello scirocco che soffia dall’Africa, il suono del Blues, quel mix magico di musiche europee ed africane, esportate in America dai pionieri europei e successivamente dagli schiavi africani. La loro sapiente sintetizzazione ha dato nel tempo forma al Blues che dall’America ci è rimbalzato di riflesso.
Il Jazz, il Blues sono ritenuti tra i generi musicali più colti. Credi siano ancora possibili evoluzioni epocali nella musica?
Credo di si. La musica evolve continuamente perché è viva. Ho studiato antropologia musicale, ovvero le diverse ragioni che spingono l’uomo a far musica, dalla danza alla spiritualità, ai racconti storici delle tribù. Vi è stata una forte influenza tra le persone che fanno musica nelle varie regioni del pianeta. Questo mi affascina moltissimo e mi piace scoprire sempre cose nuove come, per esempio, che il Reggae sia un mix di musica indiana ed africana sviluppatosi in Giamaica nel periodo espansionistico della cultura Rasta, che in Sanscrito, significa “la strada”. Negli anni ’90 feci una scoperta straordinaria. A Kathmandu, alloggiavo in una guest-house a un dollaro al giorno. Sotto la mia finestra, che si affacciava sugli antichi templi, la sera si radunavano dei musicisti. Uno di loro mi regalò una musicassetta che presto ascoltai in un mangianastri, fedele ed inseparabile compagno nei miei viaggi. Quell’aggeggio aveva la particolarità di poter riprodurre un nastro a velocità variabili. Mi accorsi, con stupore, che se ascoltavo quella cassetta lentamente la struttura del ritmo assumeva le caratteristiche del Reggae, mentre aumentando la velocità acquisiva la struttura ritmica/melodica del Flamenco. Facendo delle ricerche scoprii che una prima forma di Reggae era nata nelle prigioni giamaicane, popolate perlopiù da indiani e Gipsy. Addentrandomi ancora di più nella materia, scoprii che le comunità gitane originarie erano partite dall’India, dal Gujarat, per spostarsi verso ovest. Molti stanziarono nell’Europa dell’Est mentre altri, attraverso il nord Africa, raggiunsero la Spagna dove influenzarono notevolmente i gusti musicali locali con i loro canti, il Flamenco, che nella filosofia gitana è considerato un inno alla libertà ed indica l’eterno migrare degli uccelli.
Quindi, le varie forme musicali oggetto dalla distillazione di più generi può essere definita musica globale!
In linea di massima è cosi, ma non vanno trascurate quelle che sono e restano le realtà locali. Per esempio, trovo straordinarie le musiche di alcune tribù nomadi pigmee del Camerun. E’ molto affascinante il loro modo di vivere e quello che loro fanno. Non hanno un capo vero e proprio, però ad un certo punto sentono che è arrivato il momento di spostarsi, di partire, il momento di andare da un’altra parte. Loro non dispongono di strumenti musicali, raccolgono bastoncini per terra che poi usano per riprodurre suoni fantastici con l’ausilio degli elementi messi a disposizione dalla natura che li circonda. Accompagnano i loro canti con lo “spanking”, lo “sculacciamento” delle acque dei fiumi creando ritmi stupendi in cui le voci modulate in specifiche tonalità, creano delle vere e proprie sinfonie. La particolarità sta nel riuscire ognuno a fare con la propria voce un salto di ottava toccando due note ad un ritmo e ad una cadenza ben precisa che va ad incastrarsi con quella dell’altro creando così delle melodie intrinseche che intrecciandosi a caso, creano una giungla sonora davvero straordinaria.
A maggio, durante un concerto di tuo padre nella Sala Palatului di Bucarest, ti sei esibito davanti ad una gremitissima platea, con il brano “Lungo le Strade”, del quale hai scritto la musica su testo di Lorenzo Cherubini. Sono frequenti queste collaborazioni oppure quella con Jovanotti rappresenta un’eccezione?
La collaborazione con Lorenzo risale ad alcuni anni fa. Mi trovavo in una sala d’incisione per la registrazione di un disco (Eye Sea U – ndr). Nello studio accanto registrava anche Jovanotti. Un mio amico regalò al suo fonico il mio disco. A Lorenzo piacque molto e s’innamorò subito della mia musica. Iniziammo così una fitta collaborazione durata circa due anni, piena di buoni propositi e floride prospettive. Poi i nostri contatti si interruppero improvvisamente se
nza una ragione ben precisa. Un giorno il suo manager mi telefonò dicendomi che il momento era un po’ difficile e che il progetto sarebbe rimasto in stand-by.
Cosa successe dopo?
Nulla, ci rimasi malissimo e per la delusione entrai in una sorta di crisi. Anche perché avevo investito tutti i miei risparmi in quella operazione, fallita non certo per colpa mia.
Ti sei fatto un’idea dell’accaduto? Voglio dire, ti sei chiesto perché Jovanotti ebbe un ripensamento?
In quel periodo la mia famiglia era al centro d’un gossip sfrenato. Forse Lorenzo ritenne controproducente quel gran casino mediatico. Per me non fu uno scherzo vedermi vanificare anni di lavoro a causa di altri. Allora è un ambiente nel quale non so se riesco a lavorarci. Mi piace pensare che le ragioni del ripensamento di Lorenzo siano state altre e più valide.
La partecipazione ai concerti di tuo padre è diventata una costante da qualche tempo. Com’é maturata questa decisione?
Non lo so. So che mi ha invitato a cantare. Ero di ritorno dall’India amareggiato per essermi lasciato con una mia fidanzate durante il viaggio. Ci siamo ritrovati in aeroporto con lui e con tutta la sua Band. Ero giù, mi sentivo maledettamente giù, distrutto. Mi sono stati vicini in modo corale, hanno fatto del tutto per consolarmi, per farmi guardare oltre. Mi restava però dentro il fuoco musicale. Siccome stavo scrivendo tanti pezzi ho considerato compatibile e provvidenziale la proposta di mio padre. Sentivo intorno a me tanto amore sincero da parte della sua Band, che considero quasi miei familiari, miei fratelli e sorelle, ci conosciamo da quando sono nato. E poi nello stare vicino a mio padre c’è molto da imparare.
Per esempio?
Da lui ho imparato e mi ha trasmesso molto, la facilità di viaggiare, di partire e di ritornare. Con mio padre e mia madre era un continuo peregrinare sin da quando io e Ylenia eravamo piccoli. Negli anni ’70, prima che Cristel e Romina jr nascessero facevamo delle lunghissime tournée in Spagna e in Sud America che duravano mesi. Si viaggiava su grandi Land Rover fino a oltre sette ore al giorno per arrivare in tempo nel posto dove si facevano le serate. Si cantava fino a tarda notte, si dormiva qualche ora e poi si ripartiva di nuovo. Proprio come…
Nomadi?
Si come loro, come degli zingari ma facendo musica. Poi AlBano che cantava come cantava e come nessun altro ancora riesce a fare, insomma, tanta musica. Da lì ho capito cos’è un artista.
Un padre ed una madre come maestri di vita?
Certamente si. Tutti conoscono Albano e Romina come quelli che hanno vinto Sanremo, la coppia felice, però nessuno conosce il lato Bohémien della loro storia, che poi è stato anche il mio lato, quello che più mi ha influenzato, che mi ha formato. C’era molto Rock, molto Blues, molto Rhythm and Blues, in tutti i loro aspetti. Un Rock pulito perché non c’erano droghe di mezzo o altre schifezze. Vita sana, cibo buono ed era come vivere in campagna pur essendo in tournée.
E poi?
E poi il tempo passa, si cresce, si cambia e con noi cambiano anche le cose e accade anche quello che non dovrebbe mai succedere.
Ti riferisci alla scomparsa di Ylenia?
Si, ai primi di gennaio 1994. La sua scomparsa è legata ad un viaggio a New Orleans con tutta la famiglia alcuni mesi prima. Laggiù Ylenia fece conoscenze che non avrebbe dovuto fare, poi ci ritornò e sappiamo tutti quello che è successo. E’ un gran peccato perché penso che se fosse andata in India, in Himalaya, per lei si sarebbero aperti degli orizzonti più vasti, più consoni al suo modo di essere. Questo è stato per me uno dei più grandi dispiaceri. Penso che un viaggio in India le avrebbe fatto un gran bene. Ylenia, purtroppo, era andata in una zona molto diversa, molto meno sviluppata culturalmente e filosoficamente rispetto all’India.
Era alla ricerca di elementi per un libro, non è così?
Esatto, però è stato un errore, è come se doveva succedere. Io ero andato a cercarla nel Belize, ero lì. Lei è sparita il 4 gennaio, io già da Natale ero in Sud America. Volevo farle una sorpresa. Affittai un piccolo aereo ad elica per andare da lei a Hopkins Village. Pioveva quel giorno. La cercai dappertutto e finalmente incontrai una signora che la conosceva. Mi indicò la capanna in cui abitava ma poi ad un tratto mi disse -No aspetta! E’ partita ieri, è andata in Messico.- Ylenia era effettivamente andata in Messico e da li aveva continuato per New Orleans. Ho perso mia sorella per un pugno di ore. ( Mi dice Yari dice volgendo il suo rammarico lontano sopra i tetti di Roma, lassù verso il Gianicolo).
Pensi che Ylenia possa essere da qualche parte?
Potrebbe essere ancora viva. Non c’è nessuna ragione per credere l’opposto, non c’è stata nessuna prova ne in positivo ne in negativo. Perché credere che sia morta, solo perché non ci ha contattati?
Come vede il futuro Yari?
Lo vede in costante cambiamento: una volta che ti sei abituato a qualcosa è già cambiata. Insomma, un futuro lungo… con tante piccole bolle.