In appendice alla Mostra “Un Atteso Restauro”

Si è conclusa, domenica 20 ottobre u.s., la mostra dei dipinti nella chiesa di S. Maria della Croce (o S. Nicola da Tolentino) a Modugno. E’ stata l’occasione per ammirare da vicino le tele, prima che vengano ricollocate in alto, sulle pareti della navata della chiesa Matrice .
Un “Atteso Restauro” che, benché forse non sufficientemente pubblicizzato, ha raccolto un gran numero di visitatori, ben superiore alle aspettative.
Ma la mostra è stata anche occasione di studio e di confronto con quanto riferito sin qui dagli autori, cito fra tutti mons. Nicola Milano col suo Le chiese della Diocesi di Bari.
Se nessuna incertezza esistava sulla Adorazione dei Magi firmata da Carlo Rosa nel 1666 (o ’65, l’ultima cifra è scarsamente leggibile), si è potuto identificare con certezza l’autore del quadro “L’Immacolata tra due Santi francescani, di cui quello a  destra è San Luigi IX re di Francia” (N. Milano, op. cit.)  attribuito anch’esso a Carlo Rosa. Il restauro ha messo in luce la firma di Giuseppe De Musso che col fratello Saverio tenne bottega e lavorò nella natia Giovinazzo tra la fine del XVII e l’ultimo quarto del XVIII secolo. Valutato pittore non eccelso, privo di grandi slanci artistici, ma che il pennello lo sapeva maneggiare non fosse altro che per riprodurre imitazioni di quadri di artisti più famosi. E, come per l’autore, così è stato possibile chiarire i soggetti del quadro che proviene dall’abbattuto convento delle Clarisse di S. Chiara (le Monacelle) di Modugno. A sinistra della Vergine Immacolata è Santa Barbara; a destra è S. Elisabetta (o Isabella) di Francia (e non S. Luigi) contraddistinta dalla corona regale e dalla bandiera crucesignata. Isabella fu sorella del re Luigi IX che promosse la VII Crociata, e ne condivise gli ideali sostenendo a proprie spese dieci cavalieri, da cui il simbolo della bandiera. Edificò anche un convento a Longchamp, presso Parigi,, dedicato all’Umiltà di Nostra Signora, sotto la guida dei frati francescani, con una regola che si rifaceva a quella delle clarisse di S. Chiara. La sua presenza era quindi certamente richiamo all’umiltà per le suore alle quali il dipinto era destinato. Meno chiaro il motivo della presenza di S. Barbara nella composizione. Si tratta indubitabilmente della Santa crudelmente martirizzata nel 306 d.C., ma l’iconografia si discosta da quella classica che le pone accanto una torre (la prigione nella quale fu rinchiusa) nella quale si aprono tre finestre (simbolo trinitario), e le penne di pavone nelle quali si mutarono, secondo una ingenua leggenda, le verghe con le quali le fu inflitto il supplizio per mano del padre stesso, colpito poi dal fulmine per punizione divina. Mancano questi oggetti nel quadro ma, al loro posto, è evidente dietro la Santa un fascio di rosse saette che piovono dal cielo verso il campanile di una chiesa che rassomiglia vagamente alla Matrice di Modugno. Questa può essere la chiave di interpretazione. Nella storia della nostra chiesa parrocchiale Maria SS. Annunciata, più volte il campanile fu colpito dal fulmine: mons. Nicola Milano, nel suo Modugno. Memorie Storiche, ricorda che nel 1622 venne colpito il Crocifisso ora esposto nel Cappellone dell’Addolorata e che diede il pretesto alla omonima Fiera del Crocifisso tutt’oggi attiva; nel 1726 fu colpita la cima del campanile e fracassato l’organo della chiesa; una terza volta il 25 agosto 1747 un fulmine si abbatté sul pavimento della chiesa davanti ai gradini dell’altare dell’Addolorata. E’ opinabile che il dipinto rappresenti quasi un ex voto ed una invocazione alla Santa protettrice non solo dei minatori e degli artiglieri, ma delle torri e dei campanili contro la caduta della folgore. La datazione del dipinto potrebbe quindi, in accordo con l’epoca di maggior attività del De Musso, collocarsi nella prima metà del Settecento tra il 1726 ed il 1750.
Anche per un secondo quadro è stato possibile ridefinire il soggetto. Intitolato Cristo risorto appare a s. Tommaso e attribuito a Giuseppe Porta di Molfetta, seguace del Giaquinto, in realtà il restauro e l’osservazione diretta han potuto chiarire, se non altro, che si tratta di una Ultima cena di inconsueta composizione: con gli Apostoli raccolti in due gruppi nella penombra dello sfondo dietro la mensa, in primo piano è il Cristo dal quale sembra promanare, piuttosto che dal lampadario, la luce che illumina la scena. E’ nell’atto di istituire l’Eucarestia. Di fronte a Lui è S. Pietro genuflesso mentre, alla sinistra di chi guarda, un Giuda dallo sguardo torvo distoglie il volto corrucciato, stringendo la borsa dei denari; sulla sinistra un languido S. Giovanni vestito di rosso e di verde come da tradizione, ripiega il braccio sinistro sul petto.
Ultimo, ma non certo per bellezza, il S. Carlo Borromeo in preghiera, di autore ignoto, attribuito ad un allievo del Cunavi, pittore attivo nella prima metà del ‘600 . Fu commissionato dall’arciprete Domenico Carlo Maffei nel 1673, come si legge in calce, per la cappella dove officiavano i sacerdoti anziani (oggi ufficio del parroco). Il Santo, che guarda caso nel Concilio di Trento pubblicò le Istruzioni agli architetti, pittori e scultori, sui criteri da seguire nell’erigere gli edifici sacri e nel decorarli con quadri e statue di soggetto sacro, era invocato come protettore contro la peste e forse rappresenta il collegamento culturale fra le famiglie milanesi qui trapiantate nel XV – XVI secolo e la loro terra d’origine. E’ lui che, con aria di serena, fiduciosa umiltà, domina la scena. I quattro dipinti, insieme, mostrano in sintesi l’affermazione dell’arte barocca e postridentina sul Rinascimento. Se con l’Adorazione dei Magi è ancora presente la natura con il paesaggio e le rovine lontane, l’opera si fa essenziale e si concentra sul soggetto con il S. Carlo Borromeo. Niente più quindi elementi che possano distogliere l’attenzione dello spettatore dall’esempio di virtù offerto alla sua attenzione e, se pure compaiono due angeli (o puttini), è loro affidato il compito di rammentarci il ruolo, l’ufficio del Santo: reggono il cappello cardinalizio, la croce astata pastorale, la mitria vescovile. L’atmosfera si fa ancor più rarefatta nell’Ultima Cena: la mensa è spoglia tranne che per la coppa del vino, assimilabile per forma e colore ai tanti vasi a figure rosse e nere, di fattura italiota o magno greca, corredi tombali che affioravano nelle nostre campagne in occasione dei lavori agricoli. La coppa è lì solo perché essenziale nell’istituzione dell’Eucarestia, come il pane nelle mani del Cristo.
Non c’è più alcun cenno di realismo  nella Immacolata Concezione Tra S. Barbara e S. Elisabetta di Francia. E’ un’atmosfera senza luogo e senza tempo scandita da grappoli di angeli danzanti. In stridente contrasto, per i tratti grossolani del viso, con la finezza dei lineamenti della Vergine e delle Sante, i due angeli in primo piano sembrano usciti da un presepe napoletano. Con la rustica, goffa fisionomia di contadini o di bovari, porgono fasci di gigli e ramoscelli d’alloro. Che siano il ritratto dei committenti?
Nel loro complesso i dipinti esprimono, tutti principi della fede cattolica così come stabiliti nel Concilio di Trento: l’Adorazione dei Magi è l’Epifania dl Messi, la manifestazione della Sua regalità, divinità e umanit
à attraverso l’accettazione dei doni di oro, incenso e mirra; l’Ultima Cena è, in realtà, l’Istituzione dell’Eucarestia, ma nella mano di Cristo protesa è possibile riconoscere il primato affidato a Pietro, genuflesso in adorazione di fronte a Lui, sugli altri Apostoli in penombra.
Siamo di fronte alle pagine di un Catechismo illustrato ad uso dei fedeli cui non è consentita la lettura del Vangelo. Queste tele, in particolare quelle originarie della chiesa Matrice, vanno ora viste reinserite nel contesto di tutta la decorazione pittorica della chiesa dalla quale sono state tratte, per meglio comprenderne il significato complessivo, il messaggio sotteso, e conoscere compiutamente la storia della nostra città.
E, per concludere voglio ringraziare il dott. Giuseppe Martino per le foto e l’amico Mari Lemoli per il contributo offerto alla ricerca degli autori e all’identificazione dei soggetti raffigurati nei quadri, nonché Gennaro Loconte e Mirko Pantaleo che hanno curato l’apertura al pubblico e la custodia della sala.         

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