Alcune grosse aziende della zona industriale vivono oggi una crisi durissima minacciando la chiusura; come conseguenza, i lavoratori e le loro famiglie sono in forte apprensione. Quali possono essere le ricette politiche per uscire da questo tunnel? Qualche parola sul consorzio ASI, il cui ruolo è piuttosto controverso, mi sembra.
Il consorzio ASI ha vissuto una serie di vicende in cui la città capoluogo nella sua espressione politica ha voluto porre sempre un monopolio nella gestione, nonostante Modugno abbia circa il 70% dell’area industriale di sua competenza, nonostante i primi insediamenti siano nati nell’area di Modugno, nonostante i più grossi siano nati nell’area di Modugno. L’area industriale, partendo dall’ area prospicente a Bari, Stanic, ha trovato negli anni dopo gli anni 80-90, anche lì una chiusura. Per cui, c’è stato questo voler sottostare – non so il perché – a questa specie di monopolio dettato dalla città capoluogo attraverso le sue espressioni politiche che molto spesso coincidevano con gli interessi di alcuni esponenti regionali che trovavano una certa convenienza. Io credo che bisogna rideterminare dei ruoli nella gestione, ma io credo che soprattutto guardando non più alla città capoluogo come a sé e alla periferia, quale la città di Modugno, il problema anche che fu affrontato qualche decennio addietro, quando viveva ancora Pinuccio Tatarella, di questa destinazione del quartiere Cecilia rispetto anche alla sua vicinanza al quartiere San Paolo di Bari per cui si pensava di farla diventare un’autonomia, per cui bisognava assegnare in questo quadro, aree che sono quelle che oggi ricadono nella zona industriale di Modugno. Però nel momento in cui parliamo di area metropolitana, salvo chi vuole (come si faceva negli anni 50) mettere il mestolo più volte nella coppa per trovare più vantaggio, il discorso va visto in una chiave più complessiva e questo faciliterebbe anche gli interventi perché non è che stiamo parlando di specificità scollegate; sono specificità che sono cresciute e magari non hanno avuto lo sviluppo necessario per impedimenti vari; sono specificità comuni alla città capoluogo per quello che offre bari, il porto, l’interscambi, ecc.; non sono cose che possono essere definite nostre, sono cose che devono essere definite di area metropolitana e credo che tutti i problemi potrebbero essere affrontati. Gli imprenditori oggi hanno bisogno di infrastrutture e sicurezza e per queste ultime noi abbiamo perso realtà che davano lavoro in un certo tempo. Noi per mancanza di infrastrutture abbiamo difficoltà a trasferire le nostre merci di produzione in orizzontale verso i luoghi del bacino del tirreno. La mancanza di sicurezza ancora oggi, e sappiamo che è così per molte aziende piccole o medie, impedisce la crescita perché tutto è rivolto più alla collocazione delle persone che è giusto che debbano lavorare ma non si guarda alla prospettiva che un’azienda può avere. Certamente il comune non può entrare nei processi produttivi ma può bene divulgarli, può trasferirli in ambiti diversi e soprattutto può rendere la visita alle nostre aziende da parte dei soggetti interessati molto più favorevole rispetto alla situazione attuale di disagio.
Riguardo al problema del lavoro con una presenza di disoccupazione giovanile che non conosce precedenti (e non è soltanto giovanile). Mio nonno, che era molto saggio, mi ricordo come se fosse oggi, mi ripeteva queste parole: “povero non è chi non ha nulla, ma povero è chi non può o non vuole lavorare”. Per me questa è stata come una traccia, che ho sempre tenuto presente.
Vorrei fare un esempio. Prendiamo una famiglia mono-reddito: un genitore con uno stipendio, un figlio laureato o diplomato che sta a casa. Abbiamo una persona che consuma senza produrre e non consuma come 30 anni addietro o anche di più, ha la paghetta, esce con gli amici, …e allora cosa fare nel momento in cui molto richiedono misure per l’introduzione al lavoro..io dico che bisogna fare un percorso di questo tipo. Se un imprenditore in un rapporto di condivisione a 4 (Stato, disoccupato, padre lavoratore e imprenditore). Il padre – diciamo che può essere un esodato oppure è stato estromesso dal mercato del lavoro, comincia a vedere messo a rischio il proseguimento del lavoro. Se gli proponessimo delle sue otto ore, due ore le utilizzi nel consumo le utilizzi per suo figlio per i suoi consumi. Se noi facessimo fare sei ore al padre e 2 ore al figlio avremmo un monte complessivo di 12 ore ordinarie. Di queste dodici ore, due ore lo stato – che deve intervenire – le investe nell’ imprenditore e (non come in passato attraverso meccanismi di formazione inutili), li investe in formazione. Sostanzialmente alla fine abbiamo due ore sostenute dallo Stato, sei ore ma quelle due ore comunque andrebbero a finire nel consumo del figlio. Il figlio passerebbe dall’inattività ad essere inserito all’interno di un azienda . Con il monte di dieci ore ordinarie formiamo il ragazzo. Credo che sarebbe una strada per cominciare a parlare non solo di occupazione. Si tratta sempre di sei ore che un giovane non passa ad oziare, non pensa a darsi alla criminalità o a gesti disperati per cui viene riportato in un ambito che è quello della produzione. Spesso i giovani sono costretti ad andare fuori. Per cui questo “patto” tra padre e figlio, i primi elementi della catena, con il supporto dello Stato che vuole investire per non far perder gli anni di crescita ai giovani, e un imprenditore serio (bisogna stare attenti, i b
ilanci annuali devono essere congrui e regolari, ci sono fattori che se letti in maniera attenta ci fanno capire se un’azienda è sana) potrebbe rappresentare una delle risposte a questo momento di difficoltà.
Poi nella nostra città relazionale i servizi devono essere all’altezza. Molti hanno il mirino puntato nei confronti del pubblico impiego perché a volte ottengono con ritardo delle risposte a volte anche in maniera abusata. Bisogna dire che sono lavoratori anche loro, magari non esprimono il perché del disagio perché magari non c’è una buona organizzazione. Perciò la politica deve fare un salto di qualità ed andare oltre l’orizzonte e non guardare nell’ambito soltanto all’amicizia, all’appartenenza ma guardare alla prospettiva.
Bisogna stimolare la partecipazione della persona ad essere produttiva, oltre ogni ostacolo sindacale. Chi non può perché ha una disabilità va aiutato, a chi non vuole lavorare gli va detto che non può oziare né può vivere alle spalle degli altri.