Del Trappeto di Montepeloso e di altre storie vecchie.

Visitai per la prima volta il Trappeto di Montepeloso circa trent’anni fa. Mi accompagnava un amico che mi confidò di avvertire quasi tangibilmente il senso di antichità, di sacralità che aleggiava nell’aria sulla Lama di Musciano. Il tempo era grigio, il cielo coperto di nubi e all’angolo della strada si elevava dalla pariete di pietre a secco un Monaco cupo e maestoso, un temine muto custode antico dei campi e dei confini.
Nelle parole dell’amico c’era molta verità.
Alla nostra destra ed alla nostra sinistra si stendeva una necropoli, un’area sacra dove gli abitanti del Pagus Mucianus avevano seppellito i loro morti dall’Età della Pietra fino la Medioevo. Quella contrada era stata popolata per millenni e noi camminavamo calpestando letteralmente i resti di un villaggio di età romana, le lastre di copertura di tombe medioevali, i frammenti di tegole e vasellame di coccio sparso dappertutto. Mi avevano detto che per decine di anni i contadini del luogo avevano cavato dalla terra vasi e arredi funerari, sprofondando nelle tombe al tempo dell’aratura.
Ammiravo la bellezza di un paesaggio artificiale accuratamente modellato dall’uomo per piegare la natura alle proprie necessità: muretti di confine coperti di muschio e lichene; file di grossi blocchi squadrati di arenaria posti a contenimento e protezione dei bordi della lama; filari di olivi, mandorli e viti a perdita d’occhio. Ci fermammo davanti ad una fitta siepe. L’amico conosceva il varco ben nascosto tra i rovi e l’attraversammo entrando in un vigneto abbandonato. Quello doveva essere stato il cortile dove le olive venivano ammassate in attesa della molitura. Davanti a noi, per una trentina di metri, un muro liscio di pietre lavorate e ben connesse; non molto alto, pareva incastrato nell’altura che lo sovrastava coperta di vegetazione: il Montepeloso.

Una bassa apertura di ingresso ci obbligò ad inchinarci nell’entrare, come in chiesa perché l’interno: incredibile maestosità dell’alta volta ogivale; vastità dell’ambiente che i nostri occhi, abituandosi all’oscurità, percepivano ancora indistinta. Non c’erano più le chianche basse e piatte delle presse, né i robusti perni di legno dei torchi; erano state da tempo rimosse le macine pesanti e le vasche di pietra dove il trappetaro, per un’infamia commessa, era stato gettato dai briganti e macinato con le olive a mescolare il suo sangue con l’olio, lasciando al frantoio il nome sinistro con cui era anche noto: “Frantoio dell’Olio Rosso”.
Prima che le mutevoli condizioni della Storia ne determinassero l’abbandono, quella costruzione semi ipogea, oggi nascosta e quasi inaccessibile, era stata al centro di una fitta rete di strade che portavano non solo alle vicine città di Modugno, Bari e Bitonto, ma anche alle Marine di Palese e Santo Spirito, ai porti di Giovinazzo e Molfetta di dove l’olio prodotto veniva imbarcato per Venezia e Marsiglia.
Le torri erette nei campi intorno narravano storie di quotidiana fatica, ma anche di incursioni saracene e lotte di confine tra Bitontini e Baresi; leggende romantiche come Torre La Mora,  una ragazza di origine araba naufragata sulle nostre spiagge, raccolta ed allevata come figlia da un pastore; o forse una giovanetta che, per difendere il proprio onore, aveva ucciso il feudatario e lì si era rifugiata, tingendosi il viso di nero per non farsi riconoscere; o aneddoti gustosi come la Torre del Monsignore il quale, nella sua avarizia, aveva cercato di abituare i cavalli a non mangiare: aveva ridotto gradualmente le razioni di orzo e di biada ogni giorno ed era quasi riuscito nel suo intento finché le bestie, che parevano essersi quasi abituate a campare d’aria, improvvisamente erano morte! Favole che mi raccontava mio nonno mentre da bambino mi portava in bicicletta nel suo campicello di Musciano.

Sono tornato più volte, di recente, in quei luoghi e confesso che la prima volta non riuscivo ad orientarmi. La Zona Industriale ha aperto nuove strade sconvolgendo la vecchia rete viaria, riadattandola alle nuove esigenze. Il “Progresso” ha portato nuova ricchezza, opportunità di lavoro e benessere, ma a quale prezzo: svanito il rapporto d’amore che legava il contadino alla sua terra, dappertutto i segni dell’edilizia recente, scavi e riporti di materiale inerte; i campi disertati dagli agricoltori mostrano i segni dell’abbandono e del degrado: erbacce rifiuti di ogni genere ignorati dai nuovi colonizzatori che sentono estraneo da sé il territorio su cui pure sono insediati, da cui pure ricavano profitto. Ma è  storia vecchia.
Un opificio sorge sul luogo di dove il Monaco custodiva i campi e lui Termine muto, trafugato e recuperato, si interroga silenzioso e stranito in Piazza dei Caduti, a Modugno.

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