Tutto era ormai diventato più freddo, amorfo, piatto. Stava finendo l’amore del paese per me, ed il mio per lui. Anche gli abeti non c’erano più. Tagliati tutti per ordine del sindaco scudocrociato: roba vecchia, inutile, ingombrante. Anche se qualche cafone pianse nel vedere uccidere quegli alberi secolari.
Il “monaco”, il menhir pagano risalente a cinquemila anni fa, che si ergeva fuori del paese, bianco ed austero, era stato “sradicato” e spinto più in là, per far posto ad una fabbrica.
Resisteva ancora, seppur malamente, la festa di San Michele, sul Gargano, a Monte S. Angelo. Da ogni angolo di Puglie, Basilicata e Campania, muovevano ancora le schiere di pellegrini fra canti sacri e vessilli, a rendere omaggio all’Arcangelo exterminator demonis.
Ma quasi nessuno saliva a piedi la montagna, come una volta. Adesso ci si andava in pullman o in automobile.
Questa mia terra la stavano uccidendo giorno dopo giorno. Il mondo del progresso e dei supermercati ne stava ammazzando l’anima. Poi ci si son messi di mezzo qualche paglietta, il sindaco e il prete: e quella gente dagli occhi violenti, i discendenti poveri degli Svevi, avevano perso le ultime battaglie.
L’anno del mio ritorno definitivo nel profondo Sud ebbi la percezione esatta che avrei avuto da combattere, più che al nord, per difendere la mia civiltà.
Giravo per Alberobello, l’antica città dai trulli bianchi, e, sulla punta del più alto trullo che c’era, scorsi un’inqualificabile ed altezzosa antenna della Rai-TV.
Capii allora che per la mia povera patria avrei dovuto combattere sino alla morte.